Quando scaviamo nella memoria dei nostri antenati alla ricerca della birra originale, noi non la troviamo. Indoviniamo piuttosto come si é sviluppata: un composto di grani d'orzo e d'acqua.
Gli archeologi testimoniamo che il primo cereale coltivato é stato l'orzo, il più facile da coltivare, che ha contribuito a trasformare quei popoli da nomadi in stanziali e a formare i primi villaggi.
Piano piano le tecniche agrarie si perfezionarono e portarono alla produzione di un "surplus" che occorreva "immagazzinare".
Si presentarono allora delle difficoltà per proteggere le riserve dai vermi e dai roditori.
Essendo la necessità madre di tutte le invenzioni, la donna inventa una tecnica originale di conservazione cioè mantenere i grani in recipienti riempiti d'acqua che poi grazie ai lieviti selvaggi mettono in atto una fermentazione: la birra comincia così a delinearsi.
Quando si nutre di questo "intruglio", l'uomo primitivo si sente rinvigorito e soprattutto più felice: la durezza della vita gli appare più sopportabile e vede in tutto questo un intervento divino.
La prima traccia inconfutabile dell'esistenza della birra ci viene da una tavoletta di argilla dell'epoca predinastica sumera (circa 3.700 A.C.), il celebre "monumento blu" che descrive i doni propiziatori offerti alla dea Nin-Harra: capretti, miele e birra.
Dai caratteri cuneiformi dei sumeri sappiamo inoltre che le "case della birra" sono tenute da donne, che la birra d'orzo é chiamata sikaru (pane liquido) mentre quella di farro é detta kurunnu e che altri tipi vengono ottenuti mescolando in proporzioni diverse le prime due.
Da ricordare almeno la niud addolcita con zucchero di datteri e la bi-du, la più "ordinaria" che serviva a calcolare il salario-base degli operai (3 litri al giorno!).
La più antica legge che regolamenta la produzione e la vendita di birra é, senz'alcun dubbio, il Codice di Hammourabi (1728-1686 A.C.) che condannava a morte chi non rispettava i criteri di fabbricazione indicati e chi apriva un locale di vendita senza autorizzazione.
Gli Egizi attribuirono a Osiride, protettore dei morti, l'invenzione della birra ed essendo stretto il legame tra birra e immortalità, i più ricchi si facevano costruire delle birrerie in miniatura per le loro tombe. Ai Faraoni erano dovuti come tasse dalle città, dai territori e dalle province, migliaia e migliaia di vasi di birra e, come per i Sumeri, il salario minimo era liquido (due anfore di birra al giorno). Birra é sinonimo di vita e le sue virtù curative diventano famose: il "papiro Ebers" ci offre 600 prescrizioni mediche per alleviare le sofferenze dell'umanità il cui ingrediente principale é la birra.
Le scuole superiori insegnano la fabbricazione della birra prima della scrittura e della lettura. Si stabilisce che la vendita della birra in cambio di oro e argento é proibita in quanto il venditore può esigere solo orzo in quantità uguale alla birra venduta, pena l'essere gettato nel fiume.
Gli Egizi chiamarono la birra "zythum" e i loro cugini d'oltre-mediterraneo, i greci se ne ispirarono per chiamarla "zythos" e migliaia di anni dopo gli studiosi utilizzano la radice greca per designare gli elementi della fermentazione: zymotechnia (1762), zymotico (1855), ecc. La birra dell'epoca é un alimento che immaginiamo piuttosto zuccherato, alquanto spesso e che sviluppa un basso tenore alcolico.
La donna scopre che la birra fermenta più rapidamente se mastica i grani, infatti l'enzima della ptialina nella saliva trasforma l'amido in zuccheri adatti alla fermentazione. Ai giorni nostri, in molte zone dell'America Latina, le donne che masticano i grani e sputano nella marmitta, ripetono il più antico rituale di birrificazione conosciuto sulla terra.
L'impronta femminile sulla fabbricazione della birra si protrae sino al Medioevo. Le leggi germaniche decretano che spetta esclusivamente alla tenutaria la proprietà del materiale di brassaggio che spesso fa parte della sua dote di matrimonio. In Gran Bretagna sono le famose "Ale Wives" che preparano la nobile bevanda e il mestiere di vendere la birra é largamente dominato dalle donne.
I Galli migliorano tre aspetti del fare la birra: utilizzano pietre riscaldate per la cottura, inventano le botti per un più lungo periodo di conservazione (fino a otto mesi) e inventano una famosa pozione magica mescolando ad una birra di frumento una parte di idromele.
Nel Medioevo la libertà di fare e vendere birra costituisce un privilegio che é saldamente nelle mani delle Chiese e dei nobili che ovviamente si arrogano il diritto di produrre e commerciare la birra.
Solo quando non sono in grado di far fronte alla crescente domanda, concedono la licenza ai privati in cambio di tasse alquanto salate.
Con la nascita di sempre più potenti corporazioni di commercianti, la birra diventa una delle principali forze economiche. Nel 1376 ad Amburgo operano ben 457 birrai e si distinguono due differenti tipi di birrerie: quelle gestite dai birrai "di mare" che esportano i loro prodotti e quelli "di terra" che rispondono al mercato locale.
I Crociati contribuiscono all'incremento dell'utilizzo delle spezie che, portate dalle spedizioni in Oriente, danno senza dubbio una birra di qualità superiore.
L'insieme di vari aromi, detto "gruyt" da un termine sassone, può essere formato da un numero elevato di spezie: ambra, lampone, pepe, finocchio, giusquiamo, lavanda, anice, zafferano, cannella, genziana e chiodi di garofano. Molte città episcopali stabiliscono, diremmo oggi "monopolisticamente", un "diritto di gruyt", una vera e propria forma di tassazione che obbliga il birraio ad acquistare una quantità di gruyt proporzionale alla quantità di cereali impiegati. Con l'irresistibile ascesa del luppolo (XIII° secolo) il gruyt viene relegato ai libri di storia. Tuttavia l'impiego di spezie non sparì completamente ed ancora oggi molti birrai soprattutto del Belgio, ma anche scozzesi e scandinavi, contribuiscono a mantenere questa tradizione che ha portato, con l'avvento delle birre da degustazione, ad un crescente utilizzo delle spezie.
L’utilizzo del luppolo è antichissimo ma la pratica rigorosa di luppolare il mosto nasce nel XIII° secolo.
Un grande contributo viene dato dalle ricerche della celebre botanica Suor Hilgedard von Bingen (1098-1179) dell’Abbazia di St. Rupert in Germania. Suor Hildegard mette in evidenza le qualità del luppolo per arrestare la putrefazione ed allungare al vita alla birra. L’impiego del luppolo si espande dapprima in Boemia e poi in tutta la Germania e l’Olanda, diventata il centro nevralgico del commercio internazionale. Qualche resistenza si ha nei “tradizionalisti ad oltranza” inglesi che, nonostante l’introduzione del luppolo da parte degli immigrati fiamminghi, lo accettano pienamente solo alla fine del XVI° secolo.
Nasce nel 1516 il celeberrimo “Reinheitsgebot” (l’editto della purezza), tuttora in vigore, che obbliga il birraio ad utilizzare solo acqua, malto d’orzo e luppolo (e lievito, naturalmente).
Una curiosità: pochi sanno che in realtà Guglielmo IV di Baviera emanò questo decreto (che doveva essere temporaneo) per impedire, solo per quell’anno, l’impiego del frumento che aveva dovuto patire un raccolto disastroso.
Verso la fine del Medioevo, la produzione della birra era saldamente nelle mani della classe media che forma potenti corporazioni. Per ottenere l’autorizzazione a diventare birrai bisogna avere le “mani pulite”, non essere figli illegittimi, non aver compiuto adulterio e per chi diluisce i prodotti con l’acqua c’è la pena di morte!
La produzione di birra monastica debutta all’epoca carolingia.
Già nel 770 nell’Abbazia di Gorze in Mosella, il mastro birraio opera per i suoi silenziosi fratelli. I monaci perfezionano in modo significativo i metodi di brassaggio e diventano fino al XII° secolo gli esclusivi detentori delle conoscenze e delle tecniche. Nella famosa Abbazia di S.Gallo in Svizzera, nascono le geniali tecniche che permettono di dividere la stessa produzione in più mosti.
Il primo mosto che si estrae, ricco di zuccheri e destrine, dà una birra forte e prelibata, chiamata “prima melior”.
Il malto utilizzato trattiene tuttavia una forte proporzione di zuccheri “imprigionati” che, con l’aggiunta di acqua seguita da una filtrazione, permette di ottenere una birra meno ricca di zuccheri e destrine, più leggera e di minor valore (“da tavola”) chiamata “secunda” per il consumo dei monaci che potevano (a seconda delle regole del singolo monastero) berne dai 5 agli 8 litri al giorno! Un’ulteriore diluizione poteva essere fatta per ottenere la cosiddetta “tertia”, la birra offerta ai mendicanti.
Dopo le note vicissitudini, i saccheggi ed espopri patiti con la Rivoluzione Francese e con Napoleone, i monasteri ritornano a produrre birra ma la maggior parte cessa l’attività all’inizio del XX° secolo (fanno eccezione i famosi “padri trappisti” tuttora attivi ed anzi sempre più agguerriti, anche a livello di “marketing”: chi non conosce il logo esagonale “authentic trappist product”?).
In Inghilterra, Enrico VIII mise brutalmente fine alle attività brassicole dei monasteri e a tutt’oggi non si segnalano oltremanica cenni di ripresa.
Già prima delle grandi invenzioni contribuirono a migliorare i procedimenti medievali: il termometro inventato nel 1714 da Fahreinheit e l’idrometro di M. Marin, datato 1768.
Questi strumenti sono all’origine dei primi “quaderni di brassaggio” che permettono di avere informazioni precise sulle diverse fasi:un esempio significativo può essere rappresentato dall’inoculazione del mosto il cui momento giusto veniva deciso immergendo la mano oppure quando si riusciva a vedere la propria immagineriflessa.
La rivoluzione industriale e quella scientifica si affermano in Europa nel XIX° secolo, sconvolgendo irrimediabilmente il mondo della birra, trasformato da due fattori fondamentali: da una parte la meccanizzazione che permette di aumentare il volume prodotto e dall’altra la possibilità di controllare rigorosamente ogni tappa della produzione in modo scientifico. La prima macchina a vapore in campo birrario è attribuita a James Watt che nel 1785 utilizza la nuova tecnologia per produrre una “porter” a Londra. Daniel Wheeler fa brevettare una macchina per tostare il malto nel 1817 e apre la strada ai malti chiari e scuri, prima sconosciuti. Jean-Louis Baudelot inventa nel 1856 il “raffreddatore del mosto” che permette di recuperare il mosto raffreddato e passare subito alla fermentazione. La macchina per il ghiaccio artificiale, inventata da Carrè tre anni più tardi, esercita un impatto significativo per la birrificazione non solo a livello del raffreddamento del mosto ma soprattutto per molte altre operazioni come la bassa fermentazione e la possibilità di produrre lungo l’intera annata.
È solo nel XVIII° secolo che si assiste a una vera e propria industria del vetro. Lo sviluppo della bottiglia di vetro si ha verso il 1880-1885 con l’invenzione della vetreria meccanica che coincide con l’avvento delle birre a bassa fermentazione.
Il consumatore può ora ammirare il suo nettare e questo lo spinge a preferire birre sempre più chiare e dorate, il cui bellissimo aspetto viene esaltato dalla trasparenza del vetro.
Leuwenhoeck nel 1680 identifica il lievito di birra ma non è in grado di spiegarne nè la natura nè come agisce, cosa che riesce nel 1739 a Cagniard-Latour che attribuisce la fermentazione ad una cellula di lievito.
La sua teoria, basata su una cellula invisibile, viene duramente contestata dagli scienziati dell’epoca ma già l’anno dopo Anton Dreher e Gabriel Sedlmayr identificano il lievito come l’ingrediente segreto che fa la gloria delle birre bavaresi. Questo lievito, esportato in Boemia, fornisce l’occasione a Plzen nel 1842 di lanciare uno stile che sconvolge il mondo della birra.
Diventa il punto di riferimento di moltissime birrerie che si ispirano alla sua celebrata bionda per proporre nuovi prodotti ad un mercato sempre più crescente. I lavori di Pasteur sulla fermentazione del 1876 spianano la strada alla comprensione dell’azione del lievito e a quella dei batteri responsabili dei problemi che portano al cattivo gusto. I risultati delle sue ricerche spingono le birrerie ad equipaggiarsi di un laboratorio e nel 1883 Emil Hansen della danese Carlsberg sviluppa la tecnica per isolare un’unica cellula di lievito che permetterà finalmente ai birrai di esercitare un controllo totale sulle birre che produce.
La birreria diventa un’impresa industriale che deve affrontare una concorrenza sempre più feroce e deve migliorare la sua produttività mantenendo prezzi bassi.
L’evoluzione dei mezzi di comunicazione e dei trasporti favoriscono gli spostamenti delle birre e di conseguenza il loro confronto.
Si sviluppano pertanto dei “giganti” dell’industria birraria prima negli Stati Uniti poi via via in tutto il mondo provocando la diminuzione in caduta verticale delle piccole birrerie.
Alla fine del XIX° secolo se ne contavano più di 3.000 in Belgio e più di 2.000 negli Stati Uniti, mentre meno di cent’anni dopo il loro numero era vertiginosamente sceso a poco più di un centinaio in Belgio e a qualche dozzina negli Stati Uniti.
I mezzi di comunicazione permettono alla birra di viaggiare sempre più lontano ma favoriscono subito dopo lo sviluppo di un marketing di massa.
Le indagini di mercato dimostrano alle birrerie che “meno la birra è amara più si vende”.
Questi studi rispondono ai loro bisogni capitalistici: se per esempio risulta che il 75% prova repulsione per le birre amare, la birreria diminuisce l’amaro in tutta la sua gamma di birre senza tener conto del restante 25% dei suoi clienti. Se poi, in fase successiva, afferma nelle sue campagne pubblicitarie che è migliore perché meno amara, ha contribuito a offrire un’informazione parziale alla popolazione che rischia di identificare l’amaro con un difetto.
Assistiamo così ad un appiattimento delle birre e all’impoverimento delle attitudini sensoriali della popolazione.
Il fenomeno trova il suo apogeo nel Nord America all’inizio degli anni 60 con la scomparsa della maggioranza delle birre “speciali”. Ma per fortuna questa regressione nel gusto ha i suoi limiti.
Infatti all’inizio degli anni 80 assistiamo a un vero e proprio “rinascimento” della birra “di gusto”.
Questo fenomeno assolutamente originale non ha attinenza col passato in quanto, prima dell’industrializzazione non si parlava dell’esistenza di una cultura birraria.
La pubblicazione di opere sulla degustazione è nuova, la gastronomia alla birra è nuova, i locali specializzati sono nuovi e i primi musei della birra non hanno ancora vent’anni.
Gli elementi che spiegano questo fenomeno recente sono molteplici: il turismo, l’interesse degli appassionati, il posizionamento sul mercato delle piccole e medie industrie birrarie, la formazione di gruppi di interesse e, non ultima, la filosofia del “piccolo è bello”.
Viene attribuito agli Etruschi il merito di aver portato in Italia l’orzo, l’ingrediente fondamentale per la preparazione della birra. Ben presto nell’Antica Roma e in tutto l’impero romano si cominciò a consumare abitualmente birra anche se veniva considerata una bevanda “pagana e plebea” al confronto del “divino e nobile” vino. Nell’anno 87 d.C., Tacito, infatti, parla della birra dei Germani paragonandola al “vinus corruptus” cioè andato a male! Non la pensava così suo suocero, Agricola, che portò tre mastri birrai da Glevum, l’odierna Gloucester ed aprì a Roma nella sua villa, una birreria privata. Augusto esentò la classe medica dalle tasse perché Musa, il suo medico, l’aveva guarito dal mal di fegato ricorrendo alla “cervisia”.
La birra fu, in seguito, una delle vittime delle invasioni barbariche che distrussero gli impianti di produzione, sia pure artigianali, delle città.
Del periodo medievale, si ricordano solo degli episodi isolati legati alla vita monastica. Tra il 529 e il 543, manoscritti riportano che mentre San Benedetto da Norcia era presso l’Abbazia di Montecassino, nel Lazio, si produceva birra e questa è la prima birra d’Abbazia Italiana e forse del mondo. Nel 600 d.C. il futuro San Colombano, monaco di origine irlandese, fonda l’Abbazia di Bobbio, nel piacentino, e tra il 612 e il 613 fa miracoli con la birra. La ripresa non avviene in Italia nei secoli seguenti per l’influenza determinante del clima e delle credenze religiose. Infatti come cattolici vediamo nel vino la bevanda sacra, benedetta nell’ultima cena, e nella birra il simbolo del paganesimo delle genti del Nord.
Il ritorno della birra nel nostro paese non avviene sotto buoni segni, portata infatti dai famigerati lanzichenecchi che saccheggiano Roma nel 1527. Lo storico Massimo Alberini ci riferisce che uno dei loro capi, Giorgio von Frundesberg, si faceva seguire, anche in battaglia, da un cavallo che trasportava due barilotti di birra. Anche durante i moti risorgimentali si evidenziano le differenze di mentalità tra gli oppressi bevitori di vino e gli oppressori austriaci bevitori di birra. Ma nulla poteva ormai arrestare, anche nel nostro paese, la popolarità che questa fresca, dissetante e socializzante bevanda ha saputo conquistare in ogni parte del pianeta. Dobbiamo arrivare alla metà del secolo diciannovesimo perché finalmente anche in Italia sorgano le prime vere e proprie fabbriche, tutte a carattere artigianale.
La prima brasserie italiana è la Spluga di Chiavenna che inizia la sua attività nel 1840, seguita subito da quelle formate da lungimiranti imprenditori austriaci che volevano entrare in un mercato nuovo, come Wurher, Dreher, Paskowski, Metzger, Caratch, Von Wunster imitati ben presto da commercianti italiani, come Peroni e Menabrea. Dopo varie vicissitudini collegate alle due guerre mondiali e alle sempre più alte tassazioni, si è giunti ai giorni nostri all’inevitabile concentrazione di grossi e potentissimi raggruppamenti internazionali che hanno rapidamente portato all’acquisizione delle piccole fabbriche, facili prede, vittime di irreversibili crisi.
Il consumo di birra in Italia per il 1999 è salito alla cifra record di circa 15,555 milioni di ettolitri. La produzione interna è salita a circa 12,137 milioni di ettolitri. Salgono lievemente anche l’import fino a 3,841 milioni di ettolitri e l’export fino a 0,423 milioni di ettolitri. Il consumo pro-capite rimane costante intorno ai 27 litri. Questi aridi numeri parlano chiaro e sembrano incoraggianti se teniamo in considerazione solo il parametro della quantità. Ma se consideriamo la qualità, la realtà è ben diversa e lo sanno bene tutti coloro che si battono, ognuno nel proprio campo di competenza, per poter in un immediato futuro intraprendere il cammino l’avventura degli americani, protagonisti di una straordinaria e ben nota “renaissance”.